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  • Federica Siani

VENEZUELA di Ohad Naharin

Aggiornamento: 27 gen 2021



Venerdì 31 gennaio 2020 la Batsheva Dance Company ha conquistato il Teatro Comunale di Vicenza con lo spettacolo Venezuela. Diciotto eleganti e potenti danzatori in total black (costumi di Eri Nakamura), sulla colonna sonora di Maxim Waratt e le luci di Avi Yona Bueno, hanno offerto al pubblico un viaggio fra le emozioni più estreme in un solo atto da ottanta minuti.

La Batsheva Dance Company è la rinomata compagnia di danza contemporanea con sede a Tel Aviv (Israele). Il nome del gruppo è fortemente connesso a quello di Ohad Naharin, il direttore artistico della Batsheva, nonché principale coreografo, fino al 2018. A partire dagli anni Novanta, Naharin ha ideato e sviluppato il rivoluzionario linguaggio del corpo chiamato Gaga, un’inesauribile ricerca di sensazioni e immagini attraverso cui tanto un danzatore quanto una persona comune scopre infinite possibilità che superano i limiti creduti, invece, invalicabili. Venezuela, andata in scena per la prima volta nel 2017 a Tel Aviv, esibisce un conflitto di fondo tra corpi virtuosi, accompagnati da tracce musicali che spaziano dai canti gregoriani al rap di The Notorius B.I.G e da un tangibile sfondo politico: si veda il titolo stesso e la presenza sulla scena di bandiere nazionali.

Il sipario si alza e nove danzatori si muovono densamente, come sott’acqua, sulle note del canto gregoriano Alma Redentori Mater. L’atmosfera solennemente sospesa viene infranta da una danzatrice che esegue una posa tipica del genere latino-americano. Tale porzione iniziale espone un elemento centrale per tutta la creazione, nonché per il linguaggio Gaga, vale a dire la ricerca costante di un vasto range di movimento -ma anche di atmosfera- che include passaggi più o meno bruschi da un volume debole, che tende alla stasi, ad uno molto acuto, associato a esplosioni di importante intensità. Si tenga conto che le incursioni di tanghi e salse sono consistenti nell’intera creazione tanto che il processo creativo ha anche previsto lezioni di latino-americano con l’insegnante Natalia Petrova.

Nei primi quaranta minuti i danzatori in scena si esibiscono in duetti esplosivi e unisoni imponenti; rappano al microfono; corrono in avanti e all’indietro creando un’incredibile illusione ottica; saltano elevandosi eccezionalmente dal terreno o regalano la loro pura essenza attraverso la stasi, restituendo, comunque, momenti di complessa ma indiscutibile commozione.

Quando la traccia The Wait di Olafur Arnalds ha inizio nove danzatori in scena si spostano lentamente come sotto l’acqua e una danzatrice, diversa dalla precedente, irrompe dal gruppo. Venezuela è, infatti, una performance divisa in due porzioni in cui i passi si ripetono esattamente identici; mentre cambiano le luci, le musiche ed il cast. In questa seconda parte viene intensificato l’utilizzo del rap e abbandonati i canti gregoriani.


Mi sono chiesta a lungo del perché di questa scelta, poco rivoluzionaria eppure così potente. La risposta, ovviamente, non c’è: va cercata a livello individuale e fuori dal teatro. Così come in tutta la filosofia di Naharin, anche qui, non esiste il giusto o lo sbagliato, ma le sue sono mere proposte attraverso cui il singolo è autorizzato -e stimolato- a ricercare le proprie interpretazioni mentali e fisiche.


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